Felicità, virtù economica
Il mercato non basta
di Luigino Bruni
L’Italia oggi ha un estremo bisogno di felicità pubblica.
Pubblica felicità è una grande 'parola' della tradizione economica e civile
italiana, che ha molte importanti cose da dire a questa nostra età. In una fase
storica rivoluzionaria (il secondo Settecento) per molti versi simile a quella
attuale, gli economisti italiani associando l’economia alla pubblica felicità
volevano sottolineare tre aspetti.
1) Senza sviluppo economico i popoli non possono essere
veramente felici e non escono mai dalla condizione del servo.
2) La felicità, sia quella pubblica sia quella personale,
nasce dalle virtù, come dice anche la radice latina di felicitas, dove il prefisso fe
è lo stesso di femina, fertile, fecondo: la felicità arriva solo coltivando la virtù, come i frutti
dalla fatica e dalla cura della terra.
3) La felicità è un bene comune, perché mentre si può essere
ricchi anche da soli (soprattutto se si hanno rendite), per essere felici
occorre coltivare le relazioni, soprattutto i beni relazionali, politici,
civili.
Questi tre messaggi, che provengono dalla nostra vena più ricca e profonda, sono di una attualità e urgenza assolute. Questa crisi non ci sta proprio dicendo che quando l’economia è in crisi, quando il lavoro manca ed è fragile, quando c’è recessione, è l’intera vita delle famiglie e dei popoli che diventa infelice? Non va mai dimenticato che l’economia può essere accostata a felicità solo se e solo quando l’economia e gli economisti conoscono e combattono le parole dell’infelicità, quelle che narrano di poca, sbagliata o troppa economia. L’abbandono delle virtù – il secondo messaggio – e la lode dei vizi hanno avuto e hanno gran parte nel declino economico, etico e politico del nostro Paese. I vizi ci sono sempre stati, ma il genio della nostra generazione è di averne trasformati parecchi (avidità, azzardo morale…) in virtù, eliminando così quella vergogna pubblica che è sempre stata il principale vaccino dei vizi.
E quando si lodano i furbi, quando hanno successo gli opportunisti e i cinici, quando si remunerano lautamente i percettori di rendite, si commette quello che per l’aquilano Giacinto Dragonetti era l’errore civile più grande: «Si nuoce di più con situar male le ricompense, che col sopprimerle» (1766). Infine il terzo cruciale messaggio: l’Italia ripartirà se sarà capace di un grande progetto comune. C’è oggi troppa ricerca di felicità private, che, come tutti i beni privati, sono rivali e a 'somma zero' (cioè la maggiore felicità dell’uno è a scapito di quella degli altri). La ricerca inutile di queste pseudo-felicità 'contro', produce solo inimicizia civile, paura, insicurezza, noia e alla lunga frustrazione e malessere pubblico, e privato. La pubblica felicità ci dice invece qualcosa di diverso e di opposto: non si può essere felici da soli, e che l’infelicità degli altri ci riguarda, soprattutto l’infe-licità civile, come quella dovuta alla disoccupazione, che non è mai faccenda privata ma sempre pubblica essendo il lavoro al centro del patto sociale. Se riduciamo questa infelicità pubblica, aumentiamo la felicità di tutti e di ciascuno.
Oggi però all’Italia non basta un progetto comune: occorre anche un grande progetto pubblico. Fermeremo veramente il declino italiano non con più mercato capitalistico ma con più pubblico e più istituzioni locali, nazionali, europee e internazionali (per la finanza): all’economia italiana, da qualche decennio, manca soprattutto una politica industriale (vedi Taranto, Sulcis, Fiat e migliaia di altri casi meno noti), istituzioni più efficienti ed eque, governo del territorio e dei beni comuni, meno corruzione pubblica, una nuova classe politica e una nuova visione politica, una forte e decisa Europa politica. E mancando questi elementi, manca anche il mercato civile. È infatti solo una gran-de illusione, senza alcun supporto della migliore teoria economica, che l’Italia avrà un futuro migliore solo con più mercato e senza una vera alleanza con il pubblico e con le istituzioni. Le regioni più fragili del nostro Paese non ripartiranno mai economicamente e civilmente se mancherà una forte azione pubblica, che consentirebbe anche al mercato di svilupparsi. Il mercato è prima di tutto una istituzione sociale che ha bisogno di regole, controlli, pesi e contrappesi. Se non c’è buona politica il mercato non è mai buono, ma rafforza nuovi e vecchi feudi e vecchie e nuove rendite che poi impediscono al mercato stesso di funzionare e lo occupano.
Questi ultimi anni di fede quasi religiosa nei dogmi del mercato capitalistico for profit ci hanno mostrato tra l’altro che la corruzione privata e i suoi danni economici e sociali non sono meno gravi di quelli della corruzione pubblica, e che non c’è nessuna garanzia che manager iperpagati siano più efficienti e più equi di quelli pubblici (si pensi all’origine di questa crisi finanziaria). Basterebbero più trasparenza, regole, controllo democratico dal basso, più cultura civile. Sono anche convinto che se negli ultimi due decenni invece di privatizzare e svendere grandi imprese pubbliche, autostrade, suolo pubblico nei centri storici delle nostre città, telefonia, e molti beni comuni, avessimo soltanto fatto in modo che fossero gestiti meglio con più controllo civile e politico, oggi l’Italia sarebbe più forte e più capace di ripartire. Il mercato porta buoni frutti quando vive e cresce dentro un grande progetto comune e pubblico, e con istituzioni mature e forti. Le ferite dell’inefficienza e della corruzione del nostro passato non debbono produrre la più grande stoltezza di immaginare una buona società senza una forte presenza del pubblico. che non significa solo Stato, significa soprattutto società civile ma anche pubblica amministrazione locale e, sempre di più, Europa.
Ce lo dice la storia della Germania, della Francia, di buona parte del Nord del continente, non le storie ideologiche fondate su mercati immaginari che nessuno ha mai visto. Pubblica felicità, allora, per l’oggi e il domani del nostro Paese, ridando fiato a una tradizione nobile e grande, quella nata dal genio italiano, da cui sono sorti i Monti di Pietà, le Casse di Risparmio, la grande storia della cooperazione, i distretti industriali, Adriano Olivetti, il miracolo italiano di ieri e quello di domani.
Questi tre messaggi, che provengono dalla nostra vena più ricca e profonda, sono di una attualità e urgenza assolute. Questa crisi non ci sta proprio dicendo che quando l’economia è in crisi, quando il lavoro manca ed è fragile, quando c’è recessione, è l’intera vita delle famiglie e dei popoli che diventa infelice? Non va mai dimenticato che l’economia può essere accostata a felicità solo se e solo quando l’economia e gli economisti conoscono e combattono le parole dell’infelicità, quelle che narrano di poca, sbagliata o troppa economia. L’abbandono delle virtù – il secondo messaggio – e la lode dei vizi hanno avuto e hanno gran parte nel declino economico, etico e politico del nostro Paese. I vizi ci sono sempre stati, ma il genio della nostra generazione è di averne trasformati parecchi (avidità, azzardo morale…) in virtù, eliminando così quella vergogna pubblica che è sempre stata il principale vaccino dei vizi.
E quando si lodano i furbi, quando hanno successo gli opportunisti e i cinici, quando si remunerano lautamente i percettori di rendite, si commette quello che per l’aquilano Giacinto Dragonetti era l’errore civile più grande: «Si nuoce di più con situar male le ricompense, che col sopprimerle» (1766). Infine il terzo cruciale messaggio: l’Italia ripartirà se sarà capace di un grande progetto comune. C’è oggi troppa ricerca di felicità private, che, come tutti i beni privati, sono rivali e a 'somma zero' (cioè la maggiore felicità dell’uno è a scapito di quella degli altri). La ricerca inutile di queste pseudo-felicità 'contro', produce solo inimicizia civile, paura, insicurezza, noia e alla lunga frustrazione e malessere pubblico, e privato. La pubblica felicità ci dice invece qualcosa di diverso e di opposto: non si può essere felici da soli, e che l’infelicità degli altri ci riguarda, soprattutto l’infe-licità civile, come quella dovuta alla disoccupazione, che non è mai faccenda privata ma sempre pubblica essendo il lavoro al centro del patto sociale. Se riduciamo questa infelicità pubblica, aumentiamo la felicità di tutti e di ciascuno.
Oggi però all’Italia non basta un progetto comune: occorre anche un grande progetto pubblico. Fermeremo veramente il declino italiano non con più mercato capitalistico ma con più pubblico e più istituzioni locali, nazionali, europee e internazionali (per la finanza): all’economia italiana, da qualche decennio, manca soprattutto una politica industriale (vedi Taranto, Sulcis, Fiat e migliaia di altri casi meno noti), istituzioni più efficienti ed eque, governo del territorio e dei beni comuni, meno corruzione pubblica, una nuova classe politica e una nuova visione politica, una forte e decisa Europa politica. E mancando questi elementi, manca anche il mercato civile. È infatti solo una gran-de illusione, senza alcun supporto della migliore teoria economica, che l’Italia avrà un futuro migliore solo con più mercato e senza una vera alleanza con il pubblico e con le istituzioni. Le regioni più fragili del nostro Paese non ripartiranno mai economicamente e civilmente se mancherà una forte azione pubblica, che consentirebbe anche al mercato di svilupparsi. Il mercato è prima di tutto una istituzione sociale che ha bisogno di regole, controlli, pesi e contrappesi. Se non c’è buona politica il mercato non è mai buono, ma rafforza nuovi e vecchi feudi e vecchie e nuove rendite che poi impediscono al mercato stesso di funzionare e lo occupano.
Questi ultimi anni di fede quasi religiosa nei dogmi del mercato capitalistico for profit ci hanno mostrato tra l’altro che la corruzione privata e i suoi danni economici e sociali non sono meno gravi di quelli della corruzione pubblica, e che non c’è nessuna garanzia che manager iperpagati siano più efficienti e più equi di quelli pubblici (si pensi all’origine di questa crisi finanziaria). Basterebbero più trasparenza, regole, controllo democratico dal basso, più cultura civile. Sono anche convinto che se negli ultimi due decenni invece di privatizzare e svendere grandi imprese pubbliche, autostrade, suolo pubblico nei centri storici delle nostre città, telefonia, e molti beni comuni, avessimo soltanto fatto in modo che fossero gestiti meglio con più controllo civile e politico, oggi l’Italia sarebbe più forte e più capace di ripartire. Il mercato porta buoni frutti quando vive e cresce dentro un grande progetto comune e pubblico, e con istituzioni mature e forti. Le ferite dell’inefficienza e della corruzione del nostro passato non debbono produrre la più grande stoltezza di immaginare una buona società senza una forte presenza del pubblico. che non significa solo Stato, significa soprattutto società civile ma anche pubblica amministrazione locale e, sempre di più, Europa.
Ce lo dice la storia della Germania, della Francia, di buona parte del Nord del continente, non le storie ideologiche fondate su mercati immaginari che nessuno ha mai visto. Pubblica felicità, allora, per l’oggi e il domani del nostro Paese, ridando fiato a una tradizione nobile e grande, quella nata dal genio italiano, da cui sono sorti i Monti di Pietà, le Casse di Risparmio, la grande storia della cooperazione, i distretti industriali, Adriano Olivetti, il miracolo italiano di ieri e quello di domani.
(da Avvenire del 30
settembre 2012)© riproduzione riservata
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